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Molte delle pazienti di Milano e Firenze che seguo in qualità di ginecologa per la PMA quando portano avanti una gravidanza eterologa mi chiedono quanto nella relazione madre-figlio sia necessario e consigliato svelare al bambino la vera natura del suo concepimento, il modo in cui è nato. Non avendo io una risposta univoca da dare se non un mio personale punto di vista, che qualcuno potrebbe trovare opinabile, ho deciso di sottoporre queste tematiche a specialisti con differenti competenze, con esperienza clinica in materia.

Ecco una chiacchierata quindi con Martina Mele – che ringrazio – psicologa e coordinatrice del Dipartimento Internazionale per la Medicina Riproduttiva della Clinica Ginemed, Siviglia.

Pensa che sia necessario, importante, eticamente giusto comunicare al figlio di essere nato mediante fecondazione eterologa?

I nostri figli, genetici e non, cresceranno in un’epoca in cui il vincolo tra concepimento e genitorialità non sarà più obbligatorio. Questo è un altro elemento a conferma della tesi – sostenuta fin dagli albori della sociologia e della psicologia – per cui la famiglia non è un fenomeno naturale ma una costruzione sociale e affettiva. Sempre più persone oggi fanno i conti con la mancata continuità biologica tra generazioni, con figli i cui tratti somatici possono non ricalcare la linea genetica familiare, con fantasie e difese relative a donatori e donatrici. È la psicanalisi a ricordarci che i figli sono soprattutto figli di buoni accoppiamenti mentali e che i genitori, madri e padri, sono tali a partire dalle loro funzioni.  Nonostante questo gli studi che hanno approfondito le motivazioni del mantenimento del segreto delle origini – oltre a essere il risultato di una cultura del segreto sulla fecondazione dura da sradicare – hanno evidenziato che parte delle titubanze è dovuta al timore che la rivelazione possa compromettere la relazione genitoriale. Indicativo dello stigma sono anche le differenze nelle percentuali di coloro che decidono di parlarne: uno studio nel Regno Unito segna un 27,8 % tra coloro che hanno praticato l’inseminazione artificiale e un 40,6% tra coloro che hanno fatto ricorso alla donazione di ovociti. Ciò premesso, la realtà va sempre ascoltata e conosciuta: rimuoverla, direbbe Freud, serve solo a farla proliferare nell’oscurità.

Se si decide di raccontare la verità sulla nascita, a quale età e con quali modalità può essere comunicata?

Si può iniziare con una favola, dunque fin da piccolini. Una favola può fare da ponte, creando uno spazio di dialogo tra adulto e bambino Più il bambino è piccolo, maggiore sarà il tempo a disposizione per elaborare e integrare le informazioni ricevute. È un primo strumento che può essere utile soprattutto ai genitori perché sono loro a vivere con dolore la loro storia. Ne seguiranno altri in base al momento evolutivo del bambino.

Che tipo di impatto potrebbe avere in un soggetto sapere di essere nato da eterologa? Ci sono studi in merito? Ci sono delle esperienze?

Sono sempre più numerose le ricerche che cercano di fornire risposte. Le più importanti vengono dall’Università di Cambridge. Una in particolare, “Psychological adjustment in adolescent conceived by assited reproductive techniques”, pubblicato da Susan Golombok qualche anno fa, dice che non esistono differenze significative tra adolescenti nati con la fecondazione assistita rispetto a quelli concepiti tramite relazioni sessuale. Piuttosto il sesso dei genitori e del ragazzo o ragazza, l’età e il processo di rivelazione sono stati identificati come fattori che mediano la relazione genitore-figlio nelle famiglie ricorse a tecniche di fecondazione assistita.

Se non viene comunicata, quali sono le probabilità che per motivi medici, questa verità possa emergere nella vita?

Ad oggi i centri di riproduzione assistita hanno tutte le informazioni sui donatori dal punto di vista medico, genetico, psicologico, familiare, etc.

Per esempio in Spagna, considerata il centro nevralgico e scientifico delle tecniche di eterologa,   l’art. 5 della legge sulle tecniche di riproduzione umana assistita del 26 maggio del 2006 dichiara che la donazione è totalmente anonima e che si deve garantire la confidenzialità dei dati d’identità dei donatori. Solo in casi eccezionali, in circostanze straordinarie di pericolo certo per la vita o la salute del figlio un giudice può richiederne l’identità e l’apertura del caso. Questi sarebbero i casi in cui é necessario comunicarlo.

Le prospettive genetiche future (mappatura del genoma etc…) rendono più probabile che un soggetto conoscendo i polimorfismi del DNA possa aver più o meno bisogno dell’anamnesi familiare?

Con le prospettive genetiche e gli strumenti che esistono oggigiorno non è così fondamentale conoscere la propria storia familiare, dal momento che i test e gli esami che vengono effettuati attualmente ci danno molte più informazioni sulle potenziali malattie.

Martina Mele lavora anche a un interessante progetto editoriale per i bimbi nati con la PMA e le loro famiglie: si tratta della prima favola personalizzabile sulla riproduzione assistita, un libro illustrato per raccontare ai bambini l’avventura attraverso la quale sono venuti al mondo. Una favola pensata per ogni tipo di famiglia: per saperne di più visita la pagina web matamuabooks.com  o blog.matamuabooks.com e iscriviti alla newsletter.

 

* Foto di Mabel Amber, still incognito… da Pixabay