In Diritto e nella medicina forense si parla di danno da nascita indesiderata (cui segue la richiesta di un risarcimento per errore medico) in tutti quei casi in cui la condotta carente di un sanitario è stata lesiva del diritto di abortire della madre e ha sostanzialmente portato alla nascita di un figlio non voluto, con il conseguente danno patrimoniale per i genitori, oppure al danno grave alla salute o al danno psicologico per la madre.
In particolare questa situazione si può avere quando nasce un bambino disabile o malformato senza che il medico abbia fatto tempestiva diagnosi prenatale sul suo stato, tale da permettere alla madre di manifestare la sua volontà abortiva.
Il tema del risarcimento del danno da nascita indesiderata è un vero microcosmo nel campo della responsabilità civile in ambito sanitario, governato da regole sue proprie e dettate, almeno fino a poco tempo fa, dalla volontà di favorire la posizione processuale della parte debole (la paziente danneggiata), più che dalla rigorosa osservanza delle norme applicabili in materia.
Tale affermazione scaturisce dall’analisi dello storico delle pronunce della Corte di Cassazione fino al 2013, che evidenzia come nel tempo la pretesa risarcitoria è stata accolta non solo con estensione progressiva dei soggetti legittimati (e conseguentemente dei danni risarcibili), ma anche con progressiva semplificazione dell’onere della prova (ossia dell’obbligo di fornire le prove per l’esistenza del fatto stesso) gravante sull’attore (quindi su chi agisce in sede giudiziale per far valere il proprio diritto), in particolare sulla madre.
Nelle prime pronunce della Corte di Cassazione successive all’emanazione della L. 194/78, all’attrice era richiesto di provare la ricorrenza di tutti i presupposti che avessero legittimato il ricorso all’interruzione volontaria della gravidanza, secondo una valutazione postuma di quello che sarebbe potuto accadere se fosse stata tempestivamente informata.
Occorre tenere ben presente infatti che in Italia una volta superati i 90 giorni di gestazione la legge 194 non permette alla donna di decidere autonomamente se ricorrere o meno a un aborto, a meno che non vi siano condizioni psicologiche tali da non poter portare avanti la gravidanza.
L’inadempimento all’obbligo di corretta informazione, da parte del sanitario nei confronti della paziente, sull’opportunità di eseguire indagini prenatali in ipotesi di gravidanza a rischio […] di per sé non rileva, al fine del risarcimento dei danni, se la paziente non dà prova della sussistenza delle condizioni previste, dall’art. 6 della legge 22 maggio 1978, n. 194, per il ricorso all’interruzione della gravidanza
(Cass., n. 2793 del 1999).
Ancora di recente la Cassazione, sez. III, 13.7.2011, n. 15386 impone a chi agisce
«l’onere di provare che al momento del fatto sussistevano le condizioni dell’aborto terapeutico».
La madre deve inoltre dimostrare che se fosse stata debitamente informata della grave patologia, avrebbe scelto sicuramente di interrompere la gravidanza, non essendo sufficiente in tal senso aver richiesto degli accertamenti diagnostici (Cass. n. 7269 del 2013) ed essendo al contrario necessaria una
«preventiva espressa ed inequivoca dichiarazione della volontà di interrompere la gravidanza in caso di malattia genetica» (Cass. n. 16754 del 2012).
Forse grazie anche alle numerose critiche espresse in dottrina, la Cassazione ha riscoperto una lettura più rigorosa del dato normativo; sono numerosi gli argomenti spesi a confutazione di tale interpretazione, alcuni dei quali giunti persino ad affermare il rischio di legittimare un aborto eugenetico (ossia un aborto “selettivo” su basi genetiche).
Innanzitutto emerge che agevolare a tal punto la posizione della madre danneggiata, per quanto mossi da finalità solidaristiche, finisce per addossare al medico quello che invece dovrebbe essere compito dello Stato, ovvero quello di rimuovere quegli ostacoli, citati anche dall’art. 3 della Costituzione, che la società attuale impone alla vita di un diversamente abile.
Altro aspetto, non meno importante, concerne il peso dell’onere probatorio che andrebbe a ricadere sul medico. Pretendere da quest’ultimo la prova contraria circa la scelta della madre in senso antiabortivo, significa di fatto richiedergli non la semplice allegazione – come invece avviene per la madre – di fattori ambientali, culturali, personali idonei a dimostrare la sua versione dei fatti, ma esigere da lui la prova che la madre, se correttamente informata, avrebbe comunque portato a termine la gravidanza.
Dal 2013 si assiste all’evoluzione in un nuovo orientamento giurisprudenziale più equidistante e meno sbilanciato sulla posizione processuale della madre.
La prima pronuncia significativa in questo senso è la Cass. civ. 22 marzo 2013 n. 7269, nella quale si afferma innanzitutto che per presumere la sussistenza dei requisiti di cui alla L. 194/1978 non è più sufficiente l’allegazione della circostanza che la donna avrebbe fatto ricorso all’IVG (interruzione volontaria di gravidanza) se tempestivamente informata. Tali requisiti costituiscono infatti elementi costitutivi della pretesa azionata in giudizio dall’attrice e come tali devono essere specificatamente provati. La Corte chiarisce che la mera richiesta di accertamenti diagnostici costituisce un semplice elemento indiziante, che necessita di essere avvalorato e confermato da ulteriori elementi, i quali devono essere introdotti in giudizio dalla madre, poiché, non solo la legge, ma anche il principio di vicinanza della prova è uguale per tutti.
La pronuncia interviene a correggere anche l’altra distorsione nell’utilizzo della presunzione, al fine di provare il nesso di causa tra l’omessa informazione e la lesione del diritto di autodeterminarsi: non è infatti più consentito l’utilizzo di criteri statistici o dell’id quod plerumque accidit (assunto giuridico basato su ciò che costituisce la comune esperienza).
Il 10 dicembre 2013, sempre la Terza Sezione, con la sentenza n. 27528, ha respinto una richiesta risarcitoria per nascita indesiderata poiché la madre non era riuscita a dimostrare il nesso di causa tra l’omissione del medico e la lesione del proprio diritto di abortire.
Viene quindi abbandonato il meccanismo della presunzione giurisprudenziale, in base alla quale era stato trasferito l’onere probatorio dalla madre al medico convenuto (chiamato in causa), ritenendo tuttavia sufficiente a tale scopo un livello di prova inferiore rispetto alla prova certa.
Ancora più marcato, osserva la Corte, è il contrasto in merito alla legittimazione ad agire in capo al nato (quando la causa di risarcimento viene intentata dal nato e non dalla madre) per il risarcimento dei danni a carico del medico che con il suo inadempimento abbia impedito alla madre di interrompere la gravidanza. Secondo l’orientamento prevalente, occorreva escludere tale possibilità poiché l’ordinamento tutela il concepito e l’evoluzione della gravidanza esclusivamente verso la nascita, riconoscendo semmai un «diritto a nascere» e «a nascere sano» e non un diritto «a non nascere» o «a non nascere se non sano» (Cass., n. 14488 del 2004 e Cass., n. 10741 del 2009).
Di contro si è recentemente diffuso l’orientamento opposto che consente di agire per ottenere il risarcimento del danno, dopo la nascita, anche per il figlio che si duole in realtà non della nascita stessa, ma della propria infermità, che sarebbe mancata se non fosse nato (Cass., n. 9700 del 2011), richiamandosi alla teoria degli effetti protettivi del contratto.
Addirittura si è specificato che il risarcimento è rappresentato dall’«interesse ad alleviare la propria condizione di vita impeditiva di una libera estrinsecazione della propria personalità» (Cass., n. 16754 del 2012).
La situazione soggettiva tutelata in un procedimento per risarcimento del danno da nascita indesiderata è quindi il diritto alla salute, non quello a nascere sano. Infatti l’interesse alla procreazione cosciente e responsabile non è solo della madre, ma altresì del futuro bambino, e ciò anche quando questo si trovi ancora nel ventre materno, anche se la lesione inferta al concepito si manifesta e diviene attuale solo al momento della nascita (Cass., n. 16754 del 2012).