MIF-morte-intrauterina-fetale

Deve essere davvero difficile riuscire ad accettare il fatto che il bambino che portiamo in grembo, del quale attendiamo con immenso investimento emotivo il momento della nascita, vada invece incontro alla morte prima ancora di venire alla luce, all’improvviso e apparentemente senza una ragione. Io stessa, nel ruolo di ginecologa forense (e prima ancora di mamma) continuo a provare un grande senso d’impotenza quando vengo chiamata per le perizie mediche dei procedimenti legali per morte intrauterina fetale (MIF).

Nonostante il numero dei casi affrontati nel corso della mia esperienza di medico legale, ancora non riesco ad abituarmi all’idea che i progressi della scienza e gli alti standard della diagnostica prenatale odierna, che sono riusciti a ridurre drasticamente la mortalità intrauterina, non possano di fatto debellarla.  Nessuno è mai preparato ad una morte del genere. Nessuno può dire come e se riuscirà a darvi un senso ed elaborare il lutto.

MIF: definizione e cause

L’OMS definisce morte intrauterina fetale il decesso di un feto di peso superiore ai 500 g corrispondente alla 22° settimana di gravidanza o a una lunghezza totale di 25 centimetri. Il feto cessa di vivere nella seconda metà di gestazione e prima del termine di nascita, come conseguenza di distress fetale cronico derivato da problemi alla placenta o complicazioni del cordone ombelicale, o ancora da patologie della madre. Il decesso perinatale è quasi sempre provocato da distress fetale acuto. Gli eventi trattati in patologia ostetrica possono esserne causa, con incidenza dell’1% delle gravidanze; l’80% è dovuto a ipossia fetale in presenza di insufficienza placentare, sovente in concomitanza con diabete mellito o malformazioni. Nei casi in cui il decesso avvenga senza poterne identificare con chiarezza la motivazione, la diagnosi è di decesso idiopatico.

Si parla di morte fetale prematura, per il feto con peso variabile tra i 400 e i 999 g, e di morte fetale tardiva in riferimento a quella di un feto del peso di almeno 1000 g deceduti prima del termine di nascita.  Per il feto di peso inferiore ai 350 g si parla invece di aborto.

Essere accanto ai genitori e incoraggiare un contatto reale con il bambino morto

A seguito dello shock da diagnosi di MIF la donna reagisce generalmente chiedendo di partorire il prima possibile, senza aspettare l’espulsione naturale, come se volesse “liberarsi” col bambino del dolore: attendere qualche giorno prima di indurre il parto permette ai genitori di riflettere sulla morte del bambino; rendersene conto aiuterà l’elaborazione della perdita. Medici e ostetriche non devono lasciare i genitori soli, chiusi nel loro dolore: la donna o la coppia vanno assistiti e accompagnati – contrariamente a quello che si pensava in passato – coi tempi giusti e un’adeguata preparazione, quindi incoraggiati a vedere il bambino morto e tenerlo in braccio se possibile. Più il contatto è reale, più si crea un legame reale tra genitori e bambino per una corretta accettazione dell’evento ed elaborazione del lutto, e si evitano dolorose fantasie su di lui e su presunte “malformazioni”, che potrebbero essere difficili da sopportare in futuro. Vedere il bambino per la maggior parte dei genitori si rivela un’esperienza positiva, e sulla prima paura del contatto generalmente prevalgono la curiosità e l’amore.

Considerazioni medico legali su un caso di morte intrauterina

Recentemente mi sono occupata della perizia medico-legale di un caso di morte fetale a termine, riferita a un neonato normosomico e armonico sia per lunghezza che per peso, in una gravidanza dal decorso assolutamente normale, a basso rischio, durante la quale sono stati eseguiti controlli clinici e strumentali secondo protocollo.

Nella valutazione di un caso bisogna ragionare ex ante, cioè non considerare l’esito degli eventi ma avere una visione prospettica di ogni singolo evento occorso. Inoltre, per richiedere un risarcimento medico, non basta che vi siano errori comportamentali da parte degli operatori sanitari, ma questi stessi errori devono essere causa del danno. Cioè vi deve essere un nesso di causa tra l’errore e il danno, e qualora l’evento si fosse manifestato ugualmente anche senza l’errore, non vi è nesso di causa.

Nello specifico di questo procedimento avevo rilevato la correttezza dell’esecuzione delle ecografie e dei tracciati cardiotocografici, effettuati con un corretto intervallo a termine. In presenza di gravidanza a basso rischio infatti, a partire dalla quarantesima settimana, si eseguono i tracciati e il controllo del liquido amniotico fino a 41 + 5 settimane, epoca in cui è indicata l’induzione del travaglio per gravidanza protratta. Nel caso in esame non vi erano indicazioni a ricorrere al parto prima di quella data, né ho rilevato elementi che avrebbero dovuto indurre i sanitari a una differente condotta terapeutica.

Rimaneva da affrontare la questione della causa della morte fetale che da esame autoptico risultava essere avvenuta in maniera acuta, improvvisa, cioè non valutabile ai monitoraggi dei tracciati cardiotocografici eseguiti precedentemente. La presenza di un nodo vero cordonale serrato, evento molto raro (con incidenza non superiore al 2%) ma purtroppo possibile anche nelle gravidanze fisiologiche, può essere compatibile con il decesso acuto del feto. La presenza del nodo vero può determinare infatti alterazioni del flusso ematico (riduzione fino all’ostruzione) a carico dei vasi del cordone ombelicale, anche se nella maggior parte dei casi non si riscontra alcun danno a carico del neonato.

I fattori di rischio dei nodi veri cordonali (la cui diagnosi non è eseguibile con l’esame ecografico né con quello cardiotocografico) sono numerosi e comprendono tra gli altri il sesso maschile del feto, il diabete mellito, l’ipertensione arteriosa cronica, il polidramnios, la multiparità, il feto piccolo per l’età gestazionale, l’aborto abituale, la gravidanza gemellare monoamniotica, ma soprattutto la lunghezza del cordone superiore a 70 cm. Chiaramente a posteriori è possibile affermare che se la nascita fosse avvenuta prima della data il feto non sarebbe morto, tuttavia non essendovi indicazioni all’induzione del travaglio di parto prima della 41 + 5 settimane non è stato possibile attribuire alcuna responsabilità ai sanitari che hanno seguito la gravidanza e il suo monitoraggio.

Fonti:

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  • Weissteiner S. Der intrauterine Fruchtod Diplomarbeit Landesfachhochschule Claudiana 2000 Bozen
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  • Sternkinder.de