pillola-RU-486

La pillola RU-486 è un antiprogestinico, a base di mifepristone, uno steroide sintetico che oggi viene utilizzato in associazione con prostaglandine entro i primi 63 giorni (9 settimane calcolate a partire dal primo giorno dell’ultima mestruazione), per determinare il blocco dello sviluppo dell’embrione e conseguentemente l’aborto chimico.

La molecola è stata introdotta nel nostro Paese tra controversie e battaglie politiche nel 2009, commercializzata con il nome Mifegyne. La sua assunzione viene seguita dalla somministrazione di una o più dosi di prostaglandine, a partire da due giorni dopo, al fine di indurre un’interruzione volontaria di gravidanza con eliminazione dei residui embrionali.

In Italia la donna che decide per l’interruzione volontaria di gravidanza (IVG) si rivolge a una delle strutture sanitarie autorizzate dalla legge 194 (art.8), ospedali, poliambulatori o consultori, con la richiesta del medico di famiglia o di quello del consultorio, oppure su certificazione del proprio ginecologo di fiducia; la somministrazione della pillola RU486 è ricompresa nei LEA (Livello Essenziale di Assistenza). Con la prima visita ambulatoriale, vengono eseguiti i necessari approfondimenti clinici e diagnostici, e attraverso il protocollo di assistenza si verificano i requisiti di legge; la paziente deve quindi essere informata accuratamente sulle opzioni d’esecuzione della IVG, chirurgica o farmacologica, e poi firma il suo consenso informato.

Se opta per l’aborto farmacologico, in base ai nuovi protocolli dovrebbe poter concordare con il medico se attuarlo in ambulatorio o in regime di day hospital, oltre che come prima in ricovero ospedaliero ordinario. Le precedenti linee guida prevedevano infatti per l’aborto farmacologico esclusivamente un ricovero di tre giorni, nonostante il via libera ad alcune Regioni per la sperimentazione del trattamento ambulatoriale, recepito soprattutto da Lombardia, Emilia-Romagna, Lazio, Toscana e Umbria.

L’aborto farmacologico in nazioni come Inghilterra e Svezia rappresenta, rispettivamente, il 60% e il 90% delle IVG effettuate, mentre in Italia viene praticato solo in poco più del 20% dei casi.  Esso presenta il vantaggio di evitare l’intervento chirurgico e l’anestesia (quindi non ne comporta i rischi di complicanze quali rottura dell’utero, lacerazioni del collo dell’utero ecc) e non rende indispensabile dal punto di vista clinico l’ospedalizzazione, quando altri trattamenti di tipo chirurgico e di isterosuzione, il metodo Karman o il raschiamento, pur essendo dei veri e propri interventi vengono già praticati in day hospital.

Dopo la somministrazione di mifepristone viene effettuata quella di misopristolo a distanza di 48 ore. Dopo un periodo di osservazione, viene programmato un controllo a 14 giorni. In caso di aborto mancato o incompleto, viene applicata la procedura chirurgica nel presidio ospedaliero di riferimento.

Il protocollo farmacologico per l’Ivg è quello approvato da FDA (Food and Drug Administration) e AIFA (Agenzia Italiana del Farmaco) e viene considerato dall’Oms, l’Organizzazione Mondiale della Sanità secondo le ultime evidenze scientifiche, un metodo sicuro ed efficace: tuttavia non possono essere escluse del tutto complicanze per la madre, come emorragie e infezioni locali o sistemiche, come d’altronde può accadere con l’aborto chirurgico. In rari casi la completa asportazione dalla cavità uterina dei tessuti necrotici residui dell’aborto può richiedere anche un successivo intervento chirurgico.

Ultime linee guida: abolizione dell’obbligo di ricovero e ampliamento dell’utilizzo della pillola abortiva da 7 a 9 settimane di gravidanza

Le nuove Linee di indirizzo sulla interruzione volontaria di gravidanza con mifepristone e prostaglandine pubblicate con una circolare dal Ministero della Salute accogliendo il parere del Consiglio Superiore di Sanità dello scorso 4 agosto 2020, annullano il preesistente obbligo di ricovero di tre giorni e allungano il periodo in cui si può ricorrere al farmaco dalla settima fino alla nona settimana di gravidanza, come è prassi da tempo in molti altri paesi, raccomandando il “monitoraggio continuo ed approfondito delle procedure di interruzione volontaria di gravidanza con l’utilizzo di farmaci, avendo riguardo, in particolare, agli effetti collaterali conseguenti all’estensione del periodo in cui è consentito il trattamento in questione”.

Le polemiche suscitate da questo provvedimento si inseriscono in un più ampio annoso dibattito etico su una scelta comunque dolorosa come quella dell’interruzione di gravidanza e nelle discussioni pubbliche sul diritto di autodeterminazione delle donne, con divisioni tra chi pensa di difendere la salute delle donne con il ricovero in regime ordinario per l’assunzione della pillola e chi pensa di perseguire l’obiettivo di un livello uniforme, qualitativamente alto ed efficiente del servizio pubblico con un protocollo più snello, discreto e semplificato.

Interrogativi etici e giuridici connessi all’utilizzo del mefipristone o Ru-486:

L’azione d’inibizione dell’impianto di un embrione in utero della RU486 fin dall’inizio ha destato discussioni e interrogativi per le sue implicazioni etiche e giuridiche: da una parte si è temuto che potesse essere considerato un semplice contraccettivo, il cui obiettivo però consiste nell’impedire la fecondazione dell’ovulo da parte dello spermatozoo, mentre il mefipristone ostacolando l’impianto dell’ovulo già fecondato è da considerarsi come trattamento esclusivamente abortivo.

C’è da dire che a tale ambigua interpretazione non ha certo giovato la confusione che il pubblico fa frequentemente tra il mefipristone della RU486 e la “pillola del giorno dopo”, a base di Levonorgestrel (ormone progestinico ad alte dosi), usata come contraccettivo di emergenza da assumere in via veramente eccezionale con carattere d’urgenza entro 72 ore dal rapporto non protetto, meglio se entro le 12 ore; o ancora l’Ulipristal Acetato (modulatore selettivo del recettore del progesterone) chiamato anche “pillola dei cinque giorni dopo”, efficace fino a 120 ore dal rapporto potenzialmente a rischio.

Classificandosi come abortivo la Ru-486 pone invece diverse problematiche, come l’interrogativo sul rifiuto di prescriverla da parte di un medico già obiettore di coscienza nei confronti della legge 194; oppure sulla liceità morale di una sua prescrizione alle minorenni senza previo consenso da parte dei genitori; o ancora sul fatto di quali siano le circostanze che ne giustificano dal punto di vista etico l’uso abortivo.

Di fronte alla libertà delle donne di poter abortire in modo più riservato e discreto senza il vincolo del ricovero, i suoi detrattori parlano di un rischio di “abbandono” da parte del personale sanitario, che finisce con il delegare alla donna nel trattamento domiciliare tutto il peso psicologico dell’interruzione di gravidanza, lasciandola sola e senza sostegno morale e pratico.

Il mio approccio di ginecologa a una questione tanto delicata

Personalmente non posso che approvare le nuove linee guida del ministero circa l’abolizione del ricovero obbligatorio che sono un passo in avanti, già compiuto da anni in altri paesi, verso il rispetto e la libertà decisionale della donna.

Ricordando che se da una parte la promozione di una sessualità sicura e consapevole, di una contraccezione sicura sia dal punto di vista del concepimento indesiderato che delle malattia sessualmente trasmesse è compito della salute pubblica e dei singoli professionisti impegnati nella salute della donna, dall’altra parte è parimenti d’obbligo la garanzia della scelta abortiva, entro i termini di legge, per le donne che per i più disparati motivi, spesso dolorosi, intendono ricorrervi.

Laddove l’aborto farmacologico risulti meno invasivo, più economico per la spesa sanitaria, a parità di risultato, deve essere promosso e preferito e non ostacolato da motivazioni ideologiche che appartengono ad una sola parte della popolazione.

*Foto di Steve Buissinne da Pixabay 

 

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